Di Santi Maria Randazzo
In vista delle elezioni del 2 giugno 1946, con le quali gli Italiani elessero l’Assemblea costituente e scelsero la Repubblica, era stato registrato da più parti un clima fortemente allarmante che i vari servizi segreti avevano segnalato assieme a varie iniziative, soprattutto di ambienti monarchici e fascisti, che avevano l’obiettivo di sovvertire con la violenza i risultati elettorali nel caso in cui fossero stati favorevoli alla Repubblica. Ma il temuto golpe non avvenne giacché: “La moderazione messa in campo dai vertici delle potenze alleate aveva disinnescato le situazioni potenzialmente più esplosive. Almeno per il momento. E all’interno delle forze politiche italiane prevalsero le componenti più sagge. Il 22 giugno il ministro della Giustizia Togliatti varò l’amnistia nei confronti degli ex fascisti. Sei giorni dopo, Enrico De Nicola fu eletto capo provvisorio dello Stato. Il 15 luglio si insediò il secondo governo De Gasperi di unità nazionale. E il 19 dello stesso mese la Costituente nominò la commissione dei ‘Settantacinque’ incaricata di scrivere il testo della nuova Costituzione repubblicana […].” (1) Gli accordi tra le nazioni vincitrici della seconda guerra mondiale prevedevano che l’Italia fosse” affidata” al controllo dell’Inghilterra che, a differenza degli Stati Uniti, la consideravano una nazione sconfitta e non cobelligerante e dunque soggetta alle leggi dei vincitori. Pertanto l’Italia: “[…] non può avere un regime pienamente democratico. Non può provvedere autonomamente alla propria sicurezza. E, soprattutto, non deve seguire una linea politica estera basata su un proprio interesse nazionale. Quei divieti segreti, imposti nel 1945 dalla dottrina del leader conservatore Winston Churchill, vengono poi recepiti nel trattato di pace del 1947 e nelle clausole dell’Alleanza atlantica del 1949: coperti da un manto di ipocrisia e di indicibilità, condizioneranno i rapporti tra i due paesi lungo l’intero arco della guerra fredda. E persino dopo la caduta del Muro di Berlino.” (2)
Il 27 giugno 1947 l’Assemblea Costituente Italiana viene chiamata ad approvare il Disegno di Legge, proposto dal Ministro degli Affari Esteri (Carlo Sforza) di concerto col Presidente del Consiglio dei Ministri (Alcide De Gasperi) e con tutti i Ministri, con il quale veniva approvato il testo del Trattato di pace tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi dai delegati italiani il 10 febbraio 1947. Il Disegno di legge viene presentato all’Assemblea Costituente dal Ministro degli Affari Esteri, Carlo Sforza, che in premessa all’illustrazione del Trattato conduce una disamina storica che costituisce la più autentica testimonianza storica del travagliato percorso che condusse l’Italia a firmare il Trattato di Pace. Data l’autenticità e l’essenzialità della narrazione ho ritenuto di non operare alcuna sintesi e di riportare integralmente il testo redatto dal Ministro degli Affari Esteri Carlo Sforza ed illustrato all’Assemblea Costituente.
“ONOREVOLI COLLEGHI! – Col protocollo di Berlino del 2 agosto 1945, venne affidato ad un ‘ Consiglio dei Ministri degli Affari Esteri’, rappresentante la Gran Bretagna, l’U.R.S.S., gli Stati Uniti d’America e la Francia, il compito di predisporre uno schema di Trattato di Pace con l’Italia, da sottoporre successivamente alle altre Nazioni Unite interessate. Detto Consiglio, convenuto per la prima volta a Londra dall’11 settembre al 2 ottobre 1945, tornò a riunirsi a Parigi il 25 aprile 1946, e, in una serie di riunioni che si protrassero sin verso la metà di luglio, concordò i punti principali del progetto di trattato da sottoporre alla prevista conferenza generale composta dalle cinque Grandi Potenze – le quattro di cui sopra più la Cina – e da quegli altri paesi appartenenti alle Nazioni Unite che avevano ‘partecipato efficacemente’ alla guerra: complessivamente venti nel caso dell’Italia. Tale conferenza generale – nota poi come Conferenza di Parigi – ebbe luogo di fatto nella capitale francese dal 29 luglio al 15 ottobre 1946. Ad essa peraltro fu solo riconosciuto il diritto di fare raccomandazioni al Consiglio dei Ministri degli Affari Esteri circa eventuali modifiche da apportare al progetto di Trattato. Poiché le grandi potenze rappresentate nel consiglio stesso si erano in precedenza reciprocamente impegnate a sostenere le decisioni su cui era già stato tra loro raggiunto un accordo, la Conferenza di Parigi venne a risolversi in poco più di un’accademica discussione su decisioni già prese e che, con varianti di scarso rilievo, vennero infatti confermate. Ultimata questa seconda fase dei lavori, la redazione finale del Trattato venne nuovamente assunta dal Consiglio dei Ministri degli Affari Esteri e da questo portata a termine nella sua sessione di New York dal 4 novembre al 12 dicembre 1946; fu a New York che si concordarono le modalità della firma che fu stabilita per il 19 febbraio 1947 a Parigi. L’effettiva compilazione dei testi definitivi nelle tre lingue ufficiali – francese, inglese e russo – e nella traduzione non ufficiale italiana si protrasse ancora qualche settimana. I testi stessi vennero consegnati all’Ambasciata d’Italia a Washington solo il 16 gennaio 1947: ed il Governo italiano ne ebbe visione, per la prima volta, il 24 gennaio successivo. Occorre qui chiarire quale fu la cosiddetta partecipazione dell’Italia alla elaborazione del Trattato. In varie occasioni rappresentanti italiani sono stati ammessi a far conoscere il loro punto di vista su alcuni specifici aspetti del Trattato; così a Londra, nel settembre 1945 in occasione della prima sessione del Consiglio dei Ministri degli Affari Esteri, il Governo italiano fu invitato ad esporre le proprie considerazioni sulla questione della Venezia Giulia; ma su quella soltanto; successivamente a Parigi, tra il maggio e luglio 1946, sempre in sede di Consiglio dei Ministri degli Affari Esteri, rappresentanti italiani furono ammessi a rinnovare dichiarazioni sulla questione della Venezia Giulia, a formularne sulla frontiera italo-austriaca e, limitatamente alla regione dell’Alta Val Roja, su alcuni aspetti delle richieste francesi alla nostra frontiera occidentale: non, ad esempio, in relazione ai problemi economici, coloniali e militari. Ma in tali occasioni ai rappresentanti italiani, ultimata la loro esposizione, non fu data la possibilità di discussione e tanto meno di trattative. Non molto diversa fu la situazione alla Conferenza di Parigi, ai lavori della quale l’Italia – così come altri Stati ex nemici – non venne mai ammessa a partecipare direttamente. In aggiunta alle dichiarazioni generali che il Presidente De Gasperi ebbe a fare, su invito rivoltogli nell’Assemblea plenaria del 10 agosto 1946, la Delegazione che il Governo italiano inviò nella capitale francese ebbe ufficialmente riconosciuta solamente la facoltà di presentare le proprie osservazioni scritte al progetto di Trattato, solo alcune delle quali furono successivamente, e sempre a nostra richiesta, verbalmente illustrate di fronte alle varie Commissioni tra cui la Conferenza stessa aveva diviso il lavoro. Da notare, in particolare, che alla nostra Delegazione non fu consentito di presentare emendamenti; fu stabilito infatti che le nostre proposte, per essere prese in considerazione, avrebbero dovuto essere fatte proprie da qualche Delegazione di paese vincitore, il che di fatto è avvenuto solo in casi sporadici, sovente con sostanziali modificazioni alla proposta originale italiana e con scarso risultato pratico. Anche a New York, più tardi, i rappresentanti italiani si trovarono nella medesima situazione e non fu che poche volte, che essi furono ammessi ad esporre verbalmente il loro punto di vista dinanzi al Consiglio dei Ministri degli Esteri od al Sottocomitato per lo Statuto di Trieste. E’ innegabile quindi che la posizione italiana ha potuto essere precisata solo con notevoli limitazioni; soprattutto che non vi fu mai negoziato, e che pertanto non si può parlare di partecipazione italiana alla elaborazione del Trattato. Non fu mai concessa ai rappresentanti italiani la possibilità di trattativa né in sede di Consiglio dei Ministri degli Esteri né in sede di Conferenza. Ciò rilevo per stabilire il carattere essenzialmente unilaterale dello strumento che il Governo italiano è stato chiamato a firmare e sul quale voi oggi siete chiamati a dare il vostro voto; ma anche per dare atto ai miei predecessori dello sforzo tenace da essi compiuto attraverso durissime difficoltà, per salvare quanto era salvabile. E’ mia intenzione presentarvi presto un libro verde con la collezione completa dei documenti più rilevanti, attinenti all’attività svolta dal Governo italiano nei riguardi del Trattato di pace. Su tali documenti avranno modo di informarsi a fondo gli studiosi di storia diplomatica. Ma essi dovranno ricordare e in altra guisa ricostituire un’altra vasta azione – quella che si suol chiamare preparazione diplomatica e che dai più è ignorata – svolta durante tutto il periodo di elaborazione del Trattato, e in precedenza ad esso, dagli uomini responsabili del Governo italiano i quali non mancarono di profittare di ogni utile occasione, e quando possibile di provocarla, per prospettare ai Governi degli Stati vincitori il unto di vista italiano su tutti i problemi in discussione. Tale azione fu condotta a Roma e all’estero dai nostri agenti diplomatici e integrata anche da visite di personalità politiche italiane in varie capitali – ricorderò tra l’altro la visita del Presidente De Gasperi a Londra e Parigi, la visita dell’onorevole Nenni a Parigi, Brusselle, l’Aja ed Oslo alla vigilia della Conferenza, la mia personale missione la scorsa estate presso le Repubbliche americane; tutto ciò valse a suscitare per le nostre tesi comprensione e simpatia: basti pensare al movimento in nostro favore prodottosi nel Sud America, concretatosi nel mandato conferito al Brasile di perorare la causa dell’Italia in sede di Conferenza. Il 20 gennaio veniva notificato al Governo italiano l’invito formale ad inviare suoi plenipotenziari a Parigi, il 10 febbraio, per firmare il Trattato definitivo. Non ho bisogno di ricordarvi, come udito il parere della Commissione dei Trattati, e quello dei capi dei Gruppi parlamentari di questa Assemblea, il Presidente De Gasperi ed io ritenemmo che era nell’interesse supremo dell’Italia di nnon sottrarci al doloroso compito che ci veniva imposto e facemmo firmare; ma il plenipotenziario italiano inviato a Parigi, depositò per mia istruzione, prima della firma, una formale dichiarazione nella quale si precisava che ‘ la firma stessa rimaneva subordinata alla ratifica che spetta alla sovrana decisione dell’Assemblea Costituente alla quale è attribuita dalla Legislazione italiana l’approvazione dei Trattati internazionali’. Avevo previamente fatto sapere che se tale dichiarazione non fosse stata accolta, noi non avremmo firmato; fu solo dopo che ci si significò che tale esplicita riserva era accettata, che il plenipotenziario italiano appose il 10 febbraio 1947 la sua firma al Trattato.” (3)
Bibliografia:
- Mario José Cereghino – Giovanni Fasanella – Le menti del Doppio Stato – Chiarelettere 2020 – p. 227.
- Mario José Cereghino – Giovanni Fasanella – Il Golpe Inglese – Chiarelettere 2020 – p. 7.
- Atti Parlamentari – Assemblea Costituente n. 23 – Disegno di legge presentato dal Ministro degli Affari Esteri (Sforza) di concerto col Presidente del Consiglio dei Ministri e con tutti i Ministri – Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947 – pp. 1,2,3.
Nella foto, Alcide De Gasperi